Una nuova cornice per convivere nelle differenze
Ho seguito lo speech “Ha ancora senso lavorare sulle parole?” al WMF 2025 e mi è rimasto in testa.
Si è parlato di parole, di come ci cambiano e ci raccontano, e ho pensato valesse la pena condividere cosa ne è uscito e alcuni miei ragionamenti.
Nel 2025, il dibattito italiano sul cosiddetto linguaggio inclusivo è più che mai acceso. Tre sono le principali tensioni in gioco:
- L’esigenza etica di evitare discriminazioni;
- Il timore di un politically correct visto come ideologico e buonista;
- I profondi cambiamenti nella comunicazione, dove i confini tra pubblico e privato, formale e informale si fanno sempre più labili.
A complicare tutto è la naturale lentezza della lingua nel cambiare. La tecnologia e la società si trasformano in pochi anni; la lingua, invece, ha bisogno di generazioni. È in questa frizione tra il tempo breve dei mutamenti sociali e il tempo lungo della lingua che la sociolinguista Vera Gheno propone di passare da un’idea di “linguaggio inclusivo” a una visione di “linguaggio ampio”.
La differenza non è solo nelle parole. “Inclusivo” fa pensare a uno spazio già costruito in cui si cerca di far entrare qualcun altro. “Ampio”, invece, suggerisce che quello spazio sia progettato da subito per essere abitabile da una varietà di persone, senza che nessuno si senta un ospite.
Per capire questa proposta, bisogna partire da un’idea chiave: la lingua non è mai neutra. Ogni parola che usiamo dice qualcosa su chi siamo, su chi vogliamo coinvolgere, su come vediamo il mondo. Le parole non si limitano a trasmettere informazioni: creano realtà, definiscono ciò che è normale, accettabile, desiderabile.
Se accettiamo questo, allora anche gli strumenti del linguaggio inclusivo – dallo schwa ai femminili professionali – non possono essere liquidati come una moda passeggera. Tuttavia, le polemiche degli ultimi anni hanno trasformato l’inclusione linguistica in un campo di battaglia ideologico. Chi la promuove viene accusato di moralismo, chi la critica è visto come retrogrado. Eppure, più che un passo indietro, il “raffreddamento” del dibattito può essere visto come un momento di maturazione. La società ha acquisito più consapevolezza e ora si interroga su come rendere queste pratiche più efficaci e condivise.
A sostegno di questa visione ci sono anche studi neuroscientifici. Quando incontriamo qualcosa di “diverso”, il nostro cervello reagisce in automatico attraverso l’amigdala con segnali di allarme, ben prima che la parte razionale possa intervenire. Questo meccanismo, utile in passato per distinguere amici da predatori, spiega perché siamo spontaneamente attratti da chi ci somiglia. Parlare e scrivere in modo ampio significa quindi fare mentalmente un doppio passaggio e creare messaggi che interrompano questi automatismi, costringendo il cervello a “pensare davvero” e faticare.
Non si tratta di addolcire il linguaggio, ma di usarlo in modo strategico: frasi chiare, contesti ben spiegati, metafore efficaci ma non dannose. In questo modo, la differenza smette di apparire come una minaccia e diventa una risorsa. In quest’ottica, il principio di cooperazione del linguista Grice (essere chiari, pertinenti, onesti e ordinati) assume nuovo valore. Il linguaggio ampio non solo migliora la comprensione reciproca, ma spinge chi parla ad assumersi la responsabilità delle parole scelte: non solo per ciò che dicono, ma per ciò che fanno emergere di sé.
Le applicazioni pratiche sono tante. Nel giornalismo, il linguaggio ampio suggerisce di non ridurre l’inclusione a un gesto simbolico, ma di tenere conto anche di variabili spesso trascurate – come età, disabilità, origine o condizione sociale. Nella comunicazione d’impresa, implica progettare interfacce più sensibili alla diversità linguistica e culturale degli utenti. Nell’università, vuol dire scrivere bandi e moduli accessibili, senza perdere in precisione.
E nel marketing B2B?
Anche qui, il linguaggio ampio può fare la differenza. In un contesto dove il linguaggio tende a diventare tecnico, impersonale e standardizzato, introdurre chiarezza, inclusività e attenzione alle parole rafforza la relazione con il cliente e il fornitore. Parlare in modo ampio nel B2B significa:
- Progettare comunicazioni che siano leggibili da persone con background culturali e professionali diversi;
- Evitare formule esclusive o gergali;
- Costruire contenuti che facciano sentire ogni interlocutore parte del processo.
Questo non solo migliora la customer experience, ma genera fiducia e riconoscimento.
Un whitepaper, un’offerta o una call to action ampia è più efficace perché tiene conto delle molte forme di intelligenza, sensibilità e ruoli aziendali coinvolti nel processo decisionale.
Tutto questo non vuol dire abbandonare il linguaggio inclusivo, ma integrarlo in una visione più ampia, dove il punto centrale non è la correzione, ma la progettazione. Le parole, come le case, vanno pensate per durare. E se vogliamo che la nostra convivenza sia davvero equa e ricca, dobbiamo costruirla a partire dal modo in cui ci parliamo.
Scegliere un linguaggio ampio, oggi, non è solo una questione di stile: è una forma di leadership culturale. Un investimento sul futuro delle relazioni, anche professionali, che vede nella varietà umana non un ostacolo, ma la condizione per costruire qualcosa di più solido e condiviso.